giovedì 19 marzo 2015

Ferrero, La truffa del debito puibblico, 2014

Paolo Ferrero, "La truffa del debito pubblico" (DeriveApprodi, 2014, 150 pagine 12 euro

 Piero Basso piero.basso@fastwebnet.it

L'autore comincia con una rassegna di tutto quello che governi, stampa, televisioni ci hanno raccontato e continuano a raccontarci: che il debito è il frutto dei nostri sperperi, furbi che scarichiamo il costo delle nostre gozzoviglie sulle generazioni future.
Monti ci ha spiegato che la colpa è dei politici, che per ottenere voti hanno promesso e concesso quello che non avrebbero potuto, profittandone per rubare e sperperare in proprio.
E così anche Grillo, lega nord, gran parte della stampa.
Per fortuna l'Europa, con l'aiuto di Napolitano e Monti, ha messo fine ai nostri stravizi. L'austerità non è solo una ricetta economica, ma un percorso di ricostruzione morale. Le conquiste di cinquant'anni di lotte diventano privilegi corporativi, rendite di posizione inaccettabili, il "vecchio" che si oppone alla modernità, alle "riforme" necessarie per lo sviluppo (o, leggera variante, che "ci chiede l'Europa").

Tutti d'accordo, tutti a votare il pareggio di bilancio in Costituzione (compresi Berlusconi, Lega Nord e neofascisti), il trattato di Lisbona (con euro e BCE), il fiscal compact, eccetera.
L'unica strada per ridurre il debito è quella dell'austerità, il taglio degli "sprechi" (cioè quasi tutta la spesa pubblica, tranne gli F35).

Visti i disastri provocati dalla loro politica hanno cambiato la musica, ma non la sostanza: Renzi fa a gara con Grillo nel denunciare i "costi della politica"; abolisce l'elezione dei senatori e dei consiglieri provinciali "per risparmiare" e prosegue nei tagli al welfare. Si vanta di allargare di qualche frazione di percento la possibilità di deficit del nostro bilancio, dimentico che il suo partito ha votato compatto per il pareggio del bilancio e per il rientro del debito sotto il 60% del PIL.

Nei capitoli successivi Ferrero analizza la storia del debito pubblico italiano. Il rapporto debito/PIL, l'elemento centrale della nostra analisi, è rimasto stabilmente sotto al 40% tra il 1960 e il 1970, ed è poi andato crescendo lentamente sino al 60% nel 1981. Nel 1981 il rapporto debito/PIL ha una brusca impennata, raddoppiando (al 120%) nel giro di una dozzina d'anni. Dal 1994 il debito comincia a scendere sino a poco più del 100% del PIL, e qui rimane negli anni tra il 2000 e il 2007, quando riprende a salire impetuosamente sino al 132,6% del 2013, dopo anni di stangate di Berlusconi, Monti e Letta. Per un confronto il rapporto debito/PIL è del 78% in Germania, del 94% in Spagna, del 175% in Grecia, e di circa il 250% in Giappone (ma per il Giappone, come vedremo, non è un problema).

Torniamo a Ferrero: sino a che sinistra e sindacato sono stati forti, le disuguaglianze si sono ridotte, le condizioni di vita dei lavoratori sono migliorate, cioè proprio quando, secondo le bugie oggi in voga, la spesa sociale avrebbe dovuto aumentare, in quegli anni il debito non ha mai superato il 60% del PIL.

Quando lo stato aveva bisogno di soldi, per pagare gli stipendi, finanziare investimenti, o anche rimborsare prestiti precedenti, emetteva dei buoni del tesoro e stabiliva il tasso di interesse che avrebbe pagato (in generale vicino al tasso di inflazione). I buoni vengono collocati sul mercato, ma nel caso non vengano venduti tutti, la Banca d'Italia compra quelli rimasti invenduti. In questo modo nessuna speculazione è possibile: lo stato riceve quello che gli serve, pagandolo al tasso fissato dal Tesoro.

Nel 1981 Beniamino Andreatta, ministro del tesoro nel governo Forlani, e Carlo Azeglio Ciampi, governatore di Bankitalia, decidono l'indipendenza della banca centrale, senza nessun voto e nessun dibattito nel Parlamento, né, tanto meno, nel paese.

Ne segue che il prezzo dei titoli (e quindi il tasso di interesse) non è più fatto dallo stato, ma dal "mercato". Lo stato, per vendere tutti i titoli messi all'asta, cioè per raccogliere le somme necessarie al suo finanziamento, è costretto a pagare di più, e la speculazione ha buon gioco. Vediamo i numeri: la colonna 8 (intitolata ""Debito corretto [per tener conto dell']inflazione") rappresenta quello che sarebbe stato l'andamento del debito se gli interessi si fossero mantenuti pari al tasso di inflazione, come era avvenuto nei trenta anni precedenti. In questo caso il debito nel 2007 sarebbe stato inferiore a 300 miliardi di euro, il 19% del PIL.
Anche nell'ipotesi di un tasso di interesse superiore di due punti percentuali al tasso di inflazione, nel 2007 il debito sarebbe arrivato al 46% del PIL, ben lontano dal 104% effettivamente raggiunto a causa degli interessi da strozzini imposti dal "mercato".

Per convincerci, vediamo quello che succede oggi: con circa 2000 miliardi di debito noi paghiamo circa 80 miliardi di interessi, il 4% del debito; e chi compera i titoli del debito pubblico italiano? Le grandi banche europee, che per questo ricevono i soldi dalla Banca Centrale Europea al tasso dello 0,15%: pagano cioè 3 miliardi e ne incassano 80!

Questa cessione di sovranità, dallo stato alle banche private (e privata è la banca centrale europea, così come le famigerate agenzie di rating), avviene solo in Europa, non negli Stati Uniti, non in Gran Bretagna, non in Giappone (il paese più indebitato al mondo in rapporto al PIL, che però riceve denaro in prestito dalla Banca del Giappone al tasso dello 0,1%).

Nel 1992, di fronte al drammatico incremento del debito, passato, in poco più di un decennio, da 114 a 850 miliardi di euro (incremento dovuto per meno di un quarto al fabbisogno dello stato, e in grandissima parte all'esplosione degli interessi), il governo Amato prende alcuni drastici provvedimenti: da una parte l'abolizione della scala mobile e dall'altra la prima finanziaria "lacrime e sangue".
La lira, sopravvalutata, è oggetto di una forte speculazione, e il 13 settembre 1992 viene svalutata di oltre il 20%, svalutazione accompagnata, poco dopo, dall'uscita dallo SME (il serpente monetario europeo, una specie di moneta unica che ha preceduto l'euro). La scala mobile, cioè il meccanismo attraverso cui salari e stipendi recuperavano, in ritardo e solo parzialmente, gli aumenti dei prezzi, è stata abolita pochi giorni prima, così tutto il peso della svalutazione si scaricò sui lavoratori.

Negli anni successivi l'attacco al salario reale prosegue con la "concertazione" (1993) che limitava gli incrementi salariali a una "inflazione programmata" sistematicamente inferiore a quella reale, e, due anni dopo, con la riforma pensionistica del governo Dini. D'altra parte la manovra finanziaria del 1992 prevede 43.500 miliardi di lire di tagli alla spesa, 42.500 miliardi di nuove tasse, 7.000 miliardi di dismissioni; in totale il 5,8% del PIL, la più imponente correzione dei conti mai realizzata.
Ferrero non manca di sottolineare che mentre con una mano si toglie, dall'altra si dà generosamente: con un tasso di inflazione vicino al 4% i titoli di stato offrono interessi vicini al 15%, dieci punti percentuali in più del tasso di inflazione!

Inizia così l'era dell'avanzo primario, in cui lo stato incassa di più di quanto spende ("comprese le ruberie", sottolinea Ferrero), e nel 1994 il rapporto debito/PIL comincia a calare, sino a sfiorare il 100 % del PIL alla fine del millennio. Dopo il 2007, tuttavia, il rapporto debito/PIL riprende a salire impetuosamente.

Cosa è successo? E' successo che sono scoppiate alcune "bolle", prima di tutto quella dei mutui "subprime" americani (ne ho già parlato ampiamente in altra occasione: il consumatore americano viene incoraggiato a spendere sempre di più, indebitandosi con le banche, per acquistare la casa, la macchina, anche per il consumo quotidiano; quando a un certo punto il numero di debitori che non riescono più a pagare le rate cresce oltre un certo limite, scoppia la "bolla" speculativa). Tutte le maggiori banche hanno in pancia miliardi di euro (o di dollari) di crediti che non potranno mai essere recuperati e rischiano il fallimento. Per evitare questi fallimenti, i governi impegnano migliaia di miliardi di euro per costituire fondi "salvabanche" e "salvastati", trasformando così il debito privato delle banche in debito pubblico, che con questi provvedimenti aumenta  drammaticamente, come si può vedere nelle colonne tre e quattro della tabella (che arriva sino al 2011, ma l'andamento è continuato sino a oggi).

Ferrero sottolinea che il costo per l'Italia della partecipazione al fondo salva stati è dieci volte maggiore del costo sostenuto per i tanto sbandierati "80 euro" a una parte dei lavoratori italiani.
L'origine più vicina della crisi e le proposte per uscirne sono raccontate in molti altri libri, tra cui uno dello stesso autore che giace su qualche scaffale di casa mia. Quando lo ritroverò, e avrò il (non poco) tempo necessario per riassumerlo, non mancherò di infliggervelo.



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